12 anni senza Gianfranco Zavalloni, un ricordo
Dopo gli anni di dirigente scolastico in Italia, i suoi anni più duri e problematici, Gianfranco partecipò per curiosità, chissà, forse per gioco, a un bando del Ministero degli Affari Esteri, per accedere alla carriera diplomatica o dirigenziale nel settore attività culturali dei consolati italiani.
Vinse, con sua sorpresa il concorso e lo mandarono in Brasile a Belo Horizonte, dove è presente una forte comunità di italiani che lavorano nello stabilimento di automobili Fiat. Chiesero a Gianfranco di occuparsi delle scuole italiane come dirigente, e di organizzare eventi culturali del consolato, tra questi la settimana della cultura italiana.
Lui pensò subito di invitare gli amici, per condividere con loro luoghi e personaggi incontrati. Accettai con qualche, molte perplessità, troppo lontano il Brasile, mie difficolta a comunicare per non conoscenza delle lingue, insicurezze, timidezze e imbarazzi. Partii comunque per il Brasile con Gegé Scardaccione, altro amico importante. Passammo insieme una settimana poi Gegé tornò in Italia, mentre io continuai le peregrinazioni per altri 15 giorni nelle città di San Paolo, San Josè di Rio Preto, Mariana, Rio de Janeiro, girovagando, solo e in difficoltà con la lingua portoghese, in centri culturali e sociali, scuole, favelas, studi televisivi, università di quell’enorme affascinante paese.
Gianfranco mi raggiunse a Rio de Janeiro per passare qualche giorno di vacanza e qui cominciò a parlarmi di Getulio Damato, un giocattolaio della favela di Santa Teresa quartiere collinare dall’atmosfera bohémien. Decidemmo una mattina di andare. Prendemmo un piccolo tram che si arrampicava per una china ripidissima, partendo dalla cattedrale di Rio dedicata a San Francesco. Fiancheggiando eleganti residenze storiche, quindi edifici moderni sempre piú su tra casupole scomposte e fatiscenti, di lamiere, grovigli di strade, fili elettrici, case di cartone e baracche colorate. Ultima fermata una piazza che ospitava atelier di artisti e artigiani, bar eccentrici e ristorantini con vista sulla baia. Poco lontano il Museu da Chácara do Céu, con opere d’arte europee e brasiliane e una galleria d’arte costruita sulle rovine di una villa. In una piazza appartata un tram dipinto di giallo con la scritta “Bozolandia”, lí dentro un signore con un cappelletto in testa che costruiva giocattoli. L’atelier o laboratorio all’aperto, dalle sembianze di carrozza di un treno dipinta in modo pittoresco e naif, era appoggiata, su travi di legno, una scaletta breve che permetteva al signore di salire e scendere da una porticina, dietro le finestre un lungo bancone di lavoro, un piccolo magazzino di materiali e gli attrezzi. Tutto attorno migliaia di giocattoli costruiti a mano, prevalentemente di legno e plastica e con i chiodi a vista. Gli occhi non trovavano un punto dove fermarsi, sul pavimento della piazza erano esposti centinaia di oggetti, secondo un sistema di difficile comprensione.
Gianfranco, instaurando con lui un dialogo, viene a sapere che è un minatore di origine italiana, e che “brinca figuras, embalagens, velhos eletronicos”, inventa figure da contenitori di plastica, pezzi di elettronica e altri materiali di riciclo. Ogni giocattolo ha un nome, nelle finestrelle della carrozza cartelli espongono i pensieri dell’artigiano, dicono l’affetto che lui sente per il suo paese, le gioie e i dolori dell’amore, la devozione familiare. I giocattoli sono prevalentemente animali, oggetti fantastici, pupazzetti e piccole scenette di vita popolare. Gianfranco mi spiega che le stesse figure, ma di ceramica si possono vedere nei book shop dei musei di Rio, ricordano i personaggi dell’epica del grande Sertao, popolato di mandrie, meticci, banditi “jagunco”; uomini dai nomi altisonanti come eroi di remote saghe romantiche. Lui pure aveva qualcosa di mitico e sconosciuto, un demiurgo del giocattolo. “Cosi è la vita respirata” traduceva Gianfranco il signor Getulio, “vissuta di sopra”. Chi costruisce giocattoli non vede, né fa caso alla povertà di tutti, pulviscolo. Vossignoria sa: tanta povertà generale, gente nella fatica o nel disanimo. Il povero deve avere un triste amore per l’onestá!”. L’artigiano costruiva e parlava e noi a bocca aperta ad ascoltare capendo briciole di quel che diceva. Ma come costruire quei particolari giocattoli tutti con un volto, imparentati con gli abitanti di quei luoghi e la luce sfolgorante del Brasile, i colori e la musica di quel paese? Costruiti uno alla volta con strumenti a mano, forbici da lattoniere, seghe, martelli, tenaglie, un grosso coltello e chiodi, chiodi, chiodi a non finire. Giocattoli con luce immaginativa, ci dicevamo contenti. La sua chiamata per me in Brasile si traduceva ancora una volta, in un’avventura da vivere insieme. La strada verso la casa di un amico non è mai troppo lunga.
Roberto Papetti